“Ma quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono l’animo può
superare molte sofferenze”
W. Shakespeare
Oggi vi racconto la storia di una
donna speciale, Dani. Lasciatevi ispirare da lei e dalla sua resilienza.
Come è nata l'associazione Unite si può?
Unite si può nasce nell’ ottobre
del 2014 come logica conseguenza di un forum di sostegno psicologico per donne operate al seno aperto
nel 2012.
Dopo l’intervento, nel 2011, una
notte in cui non riuscivo a dormire, ho cominciato a navigare su internet.
Avevo bisogno di trovare “qualcosa” a cui aggrapparmi, qualcosa che mi potesse
dare sostegno… e mi sono imbattuta in un forum sul cancro al seno. Così,
d’impulso, mi sono iscritta e da quel momento non mi sono più sentita sola.
Avevo trovato tante donne che stavano vivendo o avevano vissuto quello che
vivevo io e che mi capivano. Mi hanno accompagnato tenendomi per mano e ogni
volta che sono caduta, mi hanno tirato su e mi hanno donato un po’ della loro
forza. Sarò loro eternamente grata.
Più tardi, io e altre mie
compagne di avventura, ci siamo rese conto che si poteva fare di più. Le
fondatrici del forum a cui eravamo iscritte, però, non erano disposte a seguirci,
così ne abbiamo fondato uno nostro. Due anni dopo siamo approdate
all’Associazione.
Che tipo di sostegno si cerca nell'associazione?
L’associazione viaggia di pari
passo con il relativo forum e una pagina facebook
dedicata. Compito dell’associazione è
diffondere informazioni sul cancro e sulla prevenzione. Abbiamo partecipato e
organizzato diversi eventi al riguardo. Abbiamo patrocinato e sponsorizzato una
mostra fotografica a Sassuolo che si intitola La Donna: Dolore&Forza –
che stiamo cercando di fare girare per l’Italia – e abbiamo organizzato una
serie di incontri in associazione con la ASL di Mantova che si intitola
Alimentamiamoci, oltre ad aver partecipato come testimonial al Party in Pink
(patrocinato da S.Komen) nel 2013. Ma, soprattutto, tentiamo con la nostra
presenza di dare lo stesso calore e lo stesso supporto psicologico che abbiamo
ricevuto noi, cercando così di sconfiggere il senso di solitudine che assale dopo
la diagnosi.
Nella dimensione di cura medica, cosa si tralascia?
Questa è una domanda complessa!
Prima di tutto, bisogna dire che non si è mai preparati ad una diagnosi grave;
nel nostro caso, di cancro. Se il medico è bravo, riesce a spiegarti quello che
sta succedendo senza creare allarmismo. La mia esperienza, mi porta ad
affermare che i medici dicono al paziente il minimo indispensabile nel momento
in cui è necessario, perché la consapevolezza si acquisisce graduatamente e non si può metabolizzare più
di ciò per cui si è preparati in quel momento; inoltre, non tutti i pazienti
sono uguali e non tutti reagiscono allo stesso modo. Si innesca un meccanismo
di priorità e, al primo posto, c’è la Vita. Perciò, tutto ruota sul percorso
“pratico” che porta alla salvezza: gli esami, il ricovero, l’intervento, le
terapie… Il paziente è talmente frastornato e impegnato in tutto questo che,
all’inizio, non c’è spazio per altro. Ma, man mano che la strada si delinea e
si metabolizza la notizia… beh, allora si inizia a fare i conti con se stessi e
con il proprio vissuto e qui, ci si inizia a sentire terribilmente soli. Gli
ospedali più attrezzati dispongono di un servizio di psiconcologi che possono
dare un grande aiuto ma, purtroppo, si tratta di un sostegno ancora limitato,
suppongo per gli alti costi. Personalmente, ritengo che un sostegno di questo
tipo sia indispensabile e, per questo abbiamo aperto un forum di “mutuo aiuto”.
Non siamo psicologi, ma abbiamo tanto cuore! E consapevolezza!
Cosa significa avere un tumore? Cosa cambia nella percezione di sè?
Avere un tumore significa
acquisire la consapevolezza della morte. Tutti moriamo ma, per fortuna, non ci
pensiamo e questo ci dà quella leggerezza del vivere che è impagabile. Il
tumore ti mette di fronte alla morte. Di punto in bianco, capisci che non sei
immortale e devi fare i conti con te stesso, con i tuoi sospesi, con la tua
fragilità. La prima cosa che perdi è, appunto, la leggerezza del vivere. Chi ha
vissuto un’esperienza di cancro non sarà mai più la persona che era prima della
diagnosi. In compenso, però, maturi una nuova scala di valori. Tutto acquisisce
una valenza più profonda e intensa. Il sole non è più solo il sole: è il
Calore. Per farti un esempio…
Ma, oltre a questa nuova
percezione emotiva, ti trovi a dover fare i conti anche con una nuova fisicità:
le cicatrici, la”mutilazione”, la
presenza di un corpo estraneo (la protesi)… ma anche solo la consapevolezza
della presenza di un “alieno” che vive in modo simbiotico nel tuo corpo…. Sono tutte
cose molto difficili da accettare. E non ti parlo di quello che succede quando
ti guardi allo specchio e non hai più i capelli, o le ciglia; e le
sopracciglia… Quando, nel giro di poche settimane, ingrassi di 7 kg e sei
gonfia di cortisone… Semplicemente, non ti riconosci più. La persona allo
specchio non sei più TU. Hai perso la tua identità.
La famiglia può essere vista come una risorsa o come un ostacolo nella
malattia?
La famiglia è una grandissima
risorsa! E’ il motore primario della reazione
perché chi ci sta attorno reagisce in base al modo in cui reagiamo noi.
Se chi sta male, si dimostra forte, la famiglia – per così dire – si “tranquillizza” perché vede una forma di
reazione positiva, ma se il malato si lascia andare, si lascia andare anche la
famiglia. Per assurdo, è chi sta male che ha l’onere di tranquillizzare i
propri cari. E’ un grande peso, un fardello che a volte schiaccia, ma è anche
il motore che innesca la reazione, che spinge a tirare fuori tutta la forza che
ognuno di noi ha dentro di sé senza esserne consapevole. Io penso che, nel
complesso, chi sta vicino ad un malato di cancro stia peggio del malato stesso
perché è totalmente impotente e può solo assistere (nel senso di guardare,
testimoniare e anche di assistenza). Il malato, invece, è sotto l’effetto
dell’istinto di sopravvivenza e, pertanto, rivolge ogni energia al rilascio di
quella forza interiore che gli permette di affrontare il percorso delle terapie
fino a superarlo.
Come si vive in famiglia una diagnosi di questo tipo?
Una diagnosi così grave travolge
la famiglia e la scombussola fin nelle sue fondamenta. Niente è più lo stesso.
Tutti vengono travolti e vivono le proprie paure, che sono comuni, ma anche proprie. Mi spiego
meglio: tutto ruota attorno alla persona malata e tutti cercano di fare del
proprio meglio per farla sentire accolta e amata. La persona malata si abbevera
da questo affetto, ma al contempo si sente colpevole per aver sconvolto la vita
delle persone care, così oltre alla paura per se stessa si aggiungono le paure
per le persone amate (figli, compagno…). Ogni componente della famiglia, poi,
elabora in proprio il dolore e le paure e le tiene per sé, per non pesare sulla
persona malata. Così si crea una profonda solitudine che si può sviluppare e manifestare
nelle maniere più disparate: insicurezza, aggressività, introversione, ecc..
Quando si capisce che il proprio corpo non è più malato, come ci si
sente? Come si accetta la nuova corporeità?
Ecco un’altra domanda difficile…
Non so bene come rispondere a questa domanda perché mi viene da dire che non si
guarisce più. Intendo dire che la consapevolezza di mortalità acquisita ha per
sempre sostituito la leggerezza del vivere e quindi, in un certo senso, a
livello psicologico si resta malati. Ho letto un articolo che dichiarava che
sta nascendo una nuova branca in oncologia riabilitativa che riguarda proprio i
cosiddetti “lungosopravviventi”, cioè che hanno superato i fatidici 5 anni post intervento. Fisicamente, si
impara a convivere con la propria fisicità modificata, ma si è molto più
fragili. Nel mio caso personale, dopo la quadrantectomia al seno destro, ho
subito un’annessiectomia preventiva (esportazione tube e ovaie). Ho fatto
chemioterapia che mi ha modificato fisicamente (invecchiamento precoce della
pelle, deterioramento delle unghie, perdita parziale di ciglia e sopracciglia,
aumento del peso) e poi radioterapia sul seno (modificazione del colore della
pelle e morte parziale delle cellule con conseguente modificazione
dell’elasticità della pelle). Nel 2014 è sopravvenuta una trombosi completa
della giugulare profonda destra e una parziale a braccio destro a causa,
presumibilmente, dell’assunzione della terapia ormonale post chemio (che non è
consigliabile interrompere perché è l’unica protezione contro una eventuale
recidiva). La menopausa indotta e la successiva esportazione delle ovaie hanno
accelerato l’osteoporosi e così, a seguito di una caduta, mi sono rotta il
bacino e la clavicola lato sinistro e il primo metacarpo mano destra. No,
francamente, non riesco a sentirmi “guarita”, ma per fortuna sono un’eccezione
alla regola.
Che significato ha "star bene" dopo aver avuto un tumore?
“Star bene” significa fare in
modo che l’esperienza vissuta non rimanga fine a se stessa. Vuol dire
trasformare l’esperienza negativa in qualcosa di costruttivo e di positivo.
Questo significa sconfiggere davvero il cancro. Non lasciargli lo spazio di
distruggere il nostro Io ricco e profondo.
Da donna e da madre come si rincomincia a vivere? Da dove?
Come Donna, ci vuole l’aiuto delle persone care. Conosco una donna
che ha impiegato un anno dopo l’intervento prima di riuscire a passarsi la
crema idratante sul seno, perché non riusciva ad accettare il “corpo estraneo”
della protesi e la conseguente perdita di sensibilità; e conosco molte donne
che hanno difficoltà a recuperare un’intimità sessuale con il proprio partner
perché non si sentono più “adeguate” o perché i loro compagni fanno difficoltà
a misurarsi con le cicatrici evidenti. Io sono stata molto fortunata. Il mio
compagno mi è sempre stato vicino, facendomi sentire bellissima anche quando
ero inguardabile e il suo amore e il suo affetto mi hanno permesso di accettarmi
e di amarmi anche con le mie nuove “imperfezioni”. Come madre, invece, lavoro
ancora a questa rinascita. Sono passati quattro anni, ma le mie ripetute
vicissitudini in fatto di salute, hanno pesato (e pesano tuttora) sulle mie
figlie. Ognuna ha reagito a modo proprio. La più grande (che al tempo aveva 15
anni) ha reagito con una forte introversione e la manifestazione di rabbia e
aggressività. La piccola (che aveva 12 anni) invece, ha perso i suoi punti
fermi di riferimento e ha sviluppato una forte sfiducia nel futuro e nelle
proprie capacità. E’ in terapia da un anno e le cose stanno lentamente
migliorando.
Noi, giovani psicologhe, cosa possiamo fare?
Potete fare moltissimo! Intanto,
potete battervi affinché i servizi di supporto psicologico non vengano
sottovalutati e vengano istituiti come normale prassi in tutti quei casi in cui
il trauma di una malattia grave interferisce sul normale vivere. Potete
adoperarvi presso le numerosissime associazioni che operano fattivamente presso
le strutture ospedaliere, ma anche sul web, come il nostro forum. Le
associazioni hanno sempre bisogno di persone preparate professionalmente, ma la
scarsità dei fondi è per noi di grande ostacolo. Un’opera di volontariato in
questo senso, sarebbe di grande vantaggio.
Alice
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